Liu Bolin The Invisible Man Liu Bolin The Invisible Man
 
Competition. Ferrari F1 Liu Bolin The Invisible Man: scheda tecnica
Scheda tecnica della mostra al Vittoriano racconta la storia dell’artista cinese, fino agli scatti più recenti del 20176, fino al 1 luglio 2018.
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SCHEDA TECNICA

Titolo
Liu Bolin. The Invisible Man

Sede Complesso del Vittoriano - Ala Brasini Roma

Date al pubblico 2 marzo - 1 luglio 2018

Con il Patrocinio di Regione Lazio
Roma Capitale - Assessorato alla Crescita culturale
Fondazione Italia Cina

Mostra prodotta e organizzata da Arthemisia
In collaborazione con Galleria Boxart
Mostra a cura di Raffaele Gavarro
Sponsor Generali Italia
Sponsor tecnico Trenitalia
Media coverage by Sky Arte HD
Progetto di allestimento
BC Progetti di Alessandro Baldoni e Giuseppe Catania con Francesca Romana Mazzoni

Allestimento Tagi2000
Progetto grafico in mostra e immagine coordinata L’Asterisco di Barbara Elmi
Realizzazione grafica in mostra Pubblilaser
Catalogo Arthemisia Books

Orario apertura
dal lunedì al giovedì 9.30 - 19.30
Venerdì e sabato 9.30 - 22.00
Domenica 9.30 - 20.30
(la biglietteria chiude un'ora prima)

Aperture straordinarie
Domenica 1 aprile 9.30 – 20.30
Lunedì 2 aprile 9.30 – 20.30
Mercoledì 25 aprile 9.30 – 20.30
Martedì 1 maggio 9.30 – 20.30
Sabato 2 giugno 14.30 – 22.00
Venerdì 29 giugno 9.30 - 22.00
(la biglietteria chiude un'ora prima)

Biglietti
Intero € 12,00
Ridotto € 10,00
65 anni compiuti (con documento); ragazzi da 11 a 18 anni non compiuti; studenti fino a 26 anni non compiuti (con documento); militari di leva e appartenenti alle forze dell’ordine; diversamente abili; giornalisti con regolare tessera dell’Ordine Nazionale (professionisti, praticanti, pubblicisti); dipendenti e agenti (muniti di badge) e clienti (muniti di dem nominale) Generali Italia

Ridotto Gruppi € 10,00
prenotazione obbligatoria, min 15 max 25 pax

Ridotto Speciale € 8,00
Guide con tesserino se non accompagnano un gruppo

Universitari € 6,00
ogni martedì escluso i festivi, per tutti gli studenti universitari senza limiti d’età

Ridotto scuole € 5,00
prenotazione obbligatoria, min 15 max 25 pax

Ridotto bambini € 5,00
bambini da 4 a 11 anni non compiuti

Ridotto Scuola dell’infanzia € 3,00 prenotazione obbligatoria, min 15 max 25 pax

Biglietto Open € 14,00
consente lʼingresso alla mostra senza necessità di bloccare la data e la fascia oraria. Il biglietto open va convertito in biglietteria il giorno della visita.

Omaggio
Bambini fino a 4 anni non compiuti; accompagnatori di gruppi (1 ogni gruppo); insegnanti in visita con alunni/studenti (2 ogni gruppo); soci ICOM (con tessera); un accompagnatore per disabile; possessori di coupon di invito; possessori di Vip Card Arthemisia; giornalisti con regolare tessera dell’Ordine Nazionale (professionisti, praticanti, pubblicisti) in servizio previa richiesta di accredito da parte della Redazione all’indirizzo press@arthemisia.it

SPECIALE 2x1 FRECCE TRENITALIA
Dal lunedì al venerdì (esclusi sabato, domenica e festivi) i possessori di Cartafreccia muniti di biglietto AV (FrecciaRossa e FrecciaArgento), in formato digitale o cartaceo, con cui si è raggiunta Roma (in una data antecedente al massimo tre giorni da quella della visita) pagando un ingresso intero, avranno diritto a un omaggio per un accompagnatore, valido per l’ingresso immediato in mostra.

La stessa agevolazione è valida per i viaggiatori del trasporto regionale, dietro presentazione dell’abbonamento Trenitalia (non integrato Metrobus) e di documento d’identità e ai viaggiatori in possesso di un biglietto di corsa semplice regionale o sovraregionale Trenitalia, valido per il giorno stesso di accesso al museo, utile per raggiungere Roma

Biglietto congiunto Liu Bolin + Monet
Intero € 21,00
Ridotto € 18,00
Ridotto bambini (dai 4 agli 11 anni non compiuti) € 9,00

Diritti di prenotazione e prevendita Gruppi e singoli € 1,50 per persona Scolaresche € 1,00 per studente

Informazioni e prenotazioni T. + 39 06 87 15 111

Sito www.ilvittoriano.com

Hashtag ufficiale #MostraLiuBolin

Quando mimetizzarsi è una strategia (Pechino 2008)

Telephone Booth

Liu Bolin

Gli esseri umani sono animali?
Il camaleonte ha la straordinaria prerogativa di cambiare colore per uniformarsi al colore dello sfondo come forma di auto-protezione. Il serpente a sonagli può seppellire la maggior parte del proprio corpo nella sabbia. Non solo per proteggere sé stesso, ma anche per procurarsi il cibo. Molti altri animali, come gechi e scarafaggi hanno imparato a mimetizzarsi con l’ambiente esterno per affrontare il nemico nella lunga lotta tra vita e morte; la capacità di nascondersi è spesso il fattore più importante per la sopravvivenza.
Gli esseri umani non sono animali perché non sanno proteggere sé stessi.
Due cose sono emerse chiaramente durante gli ultimi tremila anni di storia umana: primo, la specie umana progredisce distruggendo l’ambiente circostante; secondo, lo sviluppo degli esseri umani è costellato di orribili sfruttamenti. Il prezzo di questa brillante civilizzazione umana è che l’uomo dimentica quasi di essere un animale, dimentica di avere degli istinti.
Gli esseri umani sembrano aver scordato di dover ancora pensare a come sopravvivere. Mentre l’umanità si gode i frutti del proprio progresso, scava la propria tomba con la sua ingordigia.
Nella società umana non è sufficiente mimetizzarsi per sopravvivere. Il concetto di umanità stessa è messo a repentaglio. Invece di affermare che la specie umana gioca un ruolo dominante, sarebbe meglio dire che gli umani si stanno lentamente rovinando con le proprie mani.
Lo sviluppo economico ha complicato il significato della parola umanità. Con la morte sparisce il corpo ma i cambiamenti economici stanno indebolendo lo spirito degli esseri umani.
Visto che il pensiero è sinonimo di vita questa è una morte ben peggiore dell’altra. La guerra nella prima parte del secolo scorso e il progresso economico della seconda metà del secolo hanno indebolito la capacità degli esseri umani di creare significato. Consapevolmente o meno coloro che si consideravano i padroni della terra sono in balia delle forze della natura.
Alcuni comportamenti umani servono ad illustrare questa tesi.
Un secolo fa ogni uomo cinese portava una lunga treccia sulla schiena. A quel tempo era normale. Se un uomo non portava la treccia o la tagliava, ciò era sinonimo di possedere idee progressiste. Ma ora la treccia dietro la nuca che era diventata il marchio degli artisti, recentemente è prerogativa dei parrucchieri, derisi dalla maggioranza della persona che portano i capelli corti. I capelli lunghi e la treccia in sé non hanno alcun significato. I loro significati dipendono dall’ambiente esterno.
Gli esseri umani nascono all’interno della società, e i nostri pensieri sono spesso determinati dalla cultura comune. Gli esseri umani sono così deboli che persino i loro pensieri saranno copiati inconsciamente dalla prossima generazione.
Il lavaggio del cervello è più terribile della sparizione fisica.
Ogni tanto mi considero fortunato di non essere nato durante gli anni ‘50. La gente di quella generazione ha visto di tutto.

Loro hanno avuto molte esperienze comuni: subire il fascino del Presidente Mao, la rivoluzione culturale, un’educazione anomala, non andare a scuola, ricevere una coppa di ferro di riso ma andare incontro all’ondata di licenziamenti, la soppressione della distribuzione delle case, iniziare a comprare le proprie abitazioni, i figli che vanno a scuola a proprie spese e così via. Semplicemente il potere della cultura e della tradizione può influenzare il pensiero di un’intera generazione.
Oggi esistono molti differenti modi di pensare. Ogni persona sceglie la propria strada nel venire a contatto col mondo esterno. Io scelgo di fondermi con l’ambiente. Invece di dire che scompaio nello sfondo circostante, sarebbe meglio dire che è l’ambiente che mi ha inghiottito e io non posso scegliere di essere attivo o passivo.
In un contesto che privilegia l’eredità culturale, il mimetismo non è di certo un posto sicuro dove nascondersi.

Tradition. Winery

Essere cosa tra le cose

Raffaele Gavarro

Quante volte ci è capitato di pensare che un oggetto, un luogo, una casa o una moto avessero un’anima? Che le cose fossero cioè dotate di una vita legata alla nostra o a quella di chi le aveva possedute?
Senza saperlo, ma forse anche si, quest’attribuzione di vita e di anima alle cose è riconducibile al pensiero platonico e soprattutto a quel filosofo domenicano condannato al rogo come eretico in Campo de’ Fiori a Roma, quel Giordano Bruno da Nola (1548-1600) che è ancora oggi tra le figure storiche più amate dai romani probabilmente, oltre che per l’ingiusta e crudele morte patita, anche per l’adesione istintiva ad un pensiero profondamente panteista che considera l’universo infinito e senza un centro e nel quale l’uomo è dotato di una conseguente infinita libertà. E com’è noto quest’ultima è considerata dai romani un sommo bene, un precetto di vita da perseguire, nel bene e nel male.
Liu Bolin, dalla Cina sempre più vicina, sembra aderire perfettamente al pensiero del nostro Bruno:
"sia l'universo sia le singole cose possiedono tutto l'essere”; assimilando esso stesso, il proprio essere, nell’essere delle cose che lo circondano.
La storia artistica di Liu Bolin è esemplare delle modalità di affermazione dell’arte cinese nel mondo, ma nondimeno di una grande parte dell’arte di questi nostri anni straordinariamente complessi.
Il primo lavoro di immedesimazione del proprio essere con quello delle cose risale al 2005 e prende forma tra le rovine di Suojia Village, quartiere situato a nord est di Pechino, sede di centinaia di studi di artisti che il governo decide di abbattere e ricostruire per una nuova destinazione urbanistica. Una pratica che si ripete costantemente ancora oggi in tutte le grandi città della Cina.
Liu Bolin si fa propriamente parte delle rovine del proprio studio, mostrando l’anima del luogo perduto attraverso la propria figura che si confonde con le macerie. Quello è l’inizio di un ciclo che prende la significativa titolazione di Hiding in the city, un viaggio tra le cose della Cina che comprende luoghi emblematici, problematiche sociali, identità culturali note e segrete. L’essere delle cose di cui Liu Bolin diventa parte è fatta di contraddizioni tra passato e presente, tra potere esercitato e subito, e le immagini non possono che documentarle. La riflessione critica, se non proprio la contestazione politica e sociale, è dunque un’inevitabile conseguenza di questo diventare parte di esse, che prende dunque l’altrettanto inevitabile attributo di una modalità della conoscenza.
Quest’ultima è un aspetto nient’affatto secondario del lavoro di Liu Bolin e delle ragioni che lo hanno indotto a mettere a punto una tipologia espressiva che, a dispetto della semplicità con la quale si presenta, utilizza una molteplicità di linguaggi in una forma che è tanto sintetica quanto sincronica.

Performance, pittura, installazione e naturalmente fotografia, formano un unicum linguistico ed espressivo che determina l’intero processo realizzativo dell’opera attestata dall’immagine finale e di fronte alla quale siamo istintivamente portati a ripercorrerne i passaggi salienti: Liu Bolin che sceglie il punto esatto della cosa con la quale fondersi; Liu Bolin che prepara i colori nelle tonalità perfettamente corrispondenti alla cosa; Liu Bolin che si sottopone alla pitturazione del proprio corpo; Liu Bolin immobile e invisibile di fronte all’obiettivo, immerso nella cosa più che semplicemente di fronte ad essa.
Il processo ha implicito, come dicevo, una forma di conoscenza della cosa con la quale l’artista si immedesima, che se nell’approdo finale è di tipo visivo, ne contempla l’essenza e che, richiamandoci sempre a Giordano Bruno, ci corrisponde, essendo il tutto fatto di un’unica materia. La conoscenza della cosa nella quale Liu Bolin si immerge, rendendosi invisibile in essa, è dunque e alla fine una conoscenza di sé.
Come per molti artisti cinesi è però l’approdo in Occidente a confermare la forza universale del linguaggio e dei contenuti della ricerca di Liu Bolin. Il suo Grand Tour in Italia assume infatti il tono di una legittimazione attraverso una delle tradizioni artistiche e culturali più significative della storia occidentale. Dal 2008 al 2017, Liu Bolin attraversa in lungo e in largo il Bel Paese, immedesimandosi con le cose più significative delle nostre città. Diventa parte dell’Arena di Verona, del Duomo di Milano, del Ponte di Rialto e di Piazza San Marco a Venezia, di Ponte Sant’Angelo e del Colosseo a Roma, della Reggia di Caserta. Hiding in Italy è dunque il suo personalissimo modo di conoscere un mondo diverso, di comprenderne le suggestioni estetiche e l’influenza culturale, ma nondimeno di ritrovare quel fondamento di unicità che rende quelle cose, quei luoghi e quelle architetture, presenti in sé stesso, perché appunto fatte della stessa materia. Questo Grand Tour è solo l’inizio di un modo di conoscere il mondo, di prenderne parte azzerandone le differenze. Liu Bolin si reca infatti in quegli stessi anni a Londra, Arles, Parigi, New York e in India, realizzando la serie Hiding in the rest of the world, e non è difficile prevedere che molte altre saranno le tappe nel prossimo futuro.
Ma a questo punto s’impone la necessità di ragionare su un aspetto del lavoro di Liu Bolin che è tanto decisivo per l’arte attuale, quanto per la riflessione filosofica di questi anni, e che riassumerei nell’interrogativo su cosa sia la realtà, e che comprende soprattutto il bisogno di affermare non tanto la sua esistenza, che è evidentemente da sempre fuori discussione, quanto la possibilità di individuarne quelle entità di fronte alle quali è possibile condividere un giudizio comune, quegli elementi altrimenti detti di verità. Realtà e verità sono due termini che si associano in una richiesta sempre più pressante e in un contesto che però paradossalmente non appare proprio dei più favorevoli a discernerli. Se infatti pensiamo ai cambiamenti generali, e particolarmente significativi proprio per il concetto di realtà, indotti dalla rivoluzione digitale, l’esito di una rinnovata richiesta di definizione e chiarimento del reale e del vero, non può che dimostrarsi una questione ancora più complessa che nel passato.
Eppure è la stessa rivoluzione digitale, il suo processo innovativo dai ritmi convulsi, ad avere causato la fine di quel postmoderno per il quale i fatti non esistevano ma c’erano di essi solo molteplici interpretazioni e tutte di principio valide.

Pur mantenendo l’istanza critica e decostruttiva che ha caratterizzato decisamente la seconda metà del Novecento, questa nuova fase della modernità, che siamo già tentati ormai da qualche anno di definire con il prefisso neo, spinta anche dall’evidente e rinnovata dinamica della storia che sottrae sempre più certezze e punti di riferimento stabili, sta di contro imponendo la necessità di trovare dei modi grazie ai quali l’interpretazione sia in grado di dare un’attestazione della realtà e della verità nelle sue forme essenziali, che comprendono finanche la dimensione sociale e politica. Immagino che da queste poche parole s’intraveda la complessità che comporta la riflessione su concetti apparentemente banali e comuni come quelli di realtà e di verità. Una complessità che l’arte ha affrontato sino dalla fine del secolo scorso, mutando l’approccio alla realtà e passando da una condizione di mero realismo, debitrice all’antica mimesis, ad una di vera e propria partecipazione ad essa attraverso la costituzione di opere che si pongono come fatti nuovi in grado di partecipare alla costituzione reale stesso, e conseguentemente di modificarlo.
Tutto il lavoro di Liu Bolin è basato evidentemente su una pratica mimetica, ma ciononostante
essa si configura come concettualmente distante dalla classica mimesis, piuttosto tesa alla ricerca di una partecipazione diretta alla realtà, nel quale la sua presenza, o meglio immedesimazione con essa, è il fatto nuovo in grado di convalidarla.
La serie degli Shelves, scaffali, è in tal senso emblematica. Liu Bolin di fronte alla molteplicità degli elementi esposti nei supermercati o nei megastore, luoghi banali e tipici della nostra contemporaneità, ne diventa parte dimostrando vieppiù la loro natura ossessiva e incalzante. Cosa sia il consumismo, la natura del bisogno oggi e l’economia che da esse dipende, balza agli occhi senza che ci sia bisogno di troppe spiegazioni, così come la totale identificazione dell’essere umano, del consumatore, con il prodotto.
Ad un livello diverso, ma non per il senso, qualcosa di simile accade anche con la serie Fade in Italy, e soprattutto con le varie collaborazioni con brand come Moncler, Valentino, Missoni, Lanvin e Jean Paul Gaultier, grazie alle quali Liu Bolin partecipa ad una pratica oggi piuttosto diffusa di intromissione e valorizzazione concettuale della moda da parte dell’arte. Ma se da un lato questa sorta di “companyzzazione” dell’arte appare come una conseguenza dell’omologazione dei cosiddetti prodotti estetici indotta dal mercato globale ultra liberista, dall’altra essa è un’inequivocabile attestazione della volontà, nonché capacità, dell’arte di essere parte costruttiva e critica del mondo in cui è.
Non è infatti un caso, né una banale accondiscendenza alle tematiche più in voga, che Liu Bolin alterni a questi lavori con i grandi brand della moda, altri di segno totalmente opposto e che riguardano una delle questioni più urgenti e difficili della nostra epoca. La serie Migrants rappresenta infatti l’altra faccia della medaglia e del mondo, quella dove gli scaffali pieni, le macchine potenti, gli abiti e i tessuti più pregiati, non sono nemmeno un desiderio possibile, ma piuttosto il dato di fatto di una distanza incolmabile, di una frattura profondissima che attraversa il nostro tempo e che le immagini riescono a malapena a raccontare. L’immedesimarsi di Liu Bolin tanto con gli uni che con gli altri, il suo propriamente essere cosa tra cose di volta in volta tra loro così tanto diverse, è la dimostrazione di quanto e di come l’arte oggi cerchi strenuamente di farsi significativa parte della realtà in tutta la sua complessità.

Tempio di Apollo, Pompei

BIOGRAFIA LIU BOLIN

«Il camaleonte ha la straordinaria prerogativa di cambiare colore per uniformarsi al colore dello Il camaleonte ha la straordinaria prerogativa di cambiare colore per uniformarsi al colore dello sfondo come forma di auto-protezione. […] Gli esseri umani non sono animali perché non sanno proteggere sé stessi.

Nato nel 1973 nella provincia settentrionale dello Shandong, Liu Bolin si è formato alla prestigiosa Accademia Centrale d’Arte Applicata come studente del noto artista Sui Jianguo, suo mentore agli inizi della carriera. Liu appartiene alla generazione che divenne adulta nei primi anni Novanta, quando la Cina risorse dalle ceneri della Rivoluzione Culturale e stava iniziando ad affrontare una rapida crescita economica e una relativa stabilità politica.
Liu Bolin è conosciuto soprattutto per la sua serie di fotografie di performance Hiding in the City. Dalla sua prima personale a Pechino nel 1998, il lavoro di Liu Bolin ha ricevuto riconoscimenti internazionali. Tra gli altri eventi, le sue foto e le sculture tipiche della sua produzione sono state esposte nel più importante festival di fotografia contemporanea “Les Rencontres d’Arles”, e ha tenuto mostre personali alla Fondazione FORMA per la Fotografia di Milano, al Fotografiska Museet di Stoccolma, al Museo Hendrik Christian Andersen di Roma, alla Dashanzi Art Zone di Pechino, al Centre Pompidou di Parigi, presso la sede delle Nazioni Unite di New York, alla Galleria Boxart di Verona e Erarta Museum and Galleries of Contemporary Art di San Pietroburgo. Ha preso parte come relatore nel 2013 ai TED di Los Angeles. Oggi vive e lavora a Pechino.

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