Trionfo di Apollo Fatto in Italia. Dal Medioevo al Made in Italy
La mostra racconta la storia del “Made in Italy” dalle sue lontane origini fino alla produzione più attuale quegli oggetti che, per il loro stile, sono diventati moda; alla Venaria Reale di Torino, dal 19 marzo al 10 luglio 2016.
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Francesco Negroli e fratelli, Armatura del Delfino Enrico di Francia, futuro Enrico II, 1540 ca.Fatto in Italia. Dal Medioevo al Made in Italy indaga alcuni momenti della produzione italiana delle arti decorative, o del lusso, che tra il Medioevo e l’Età Moderna hanno prodotto oggetti straordinari destinati alla persona (come tessuti, armi, armature) e alla casa (come avori, cristalli, maioliche, bronzi, pietre dure, coralli, ancora tessuti) destinati in genere alla clientela laica. La qualità artistica, la capacità di innovazione e l’eccellenza tecnica si unirono per produrre beni che, diventati di moda, venivano esportati in tutto il mondo allora conosciuto. I sistemi produttivi che città e territori hanno messo in atto dal Medioevo fino alle soglie dell’industrializzazione rappresentano un fenomeno di lunga durata, che si è riproposto con il Made in Italy del Novecento, le cui profonde radici affondano appunto nella cultura artistica italiana. La mostra si richiama idealmente alle esposizioni universali del XIX secolo, che presentavano quello che era definito artigianato artistico. Tra le molte tecniche e i diversi materiali è stata fatta una scelta di materiali e di luoghi là dove è stata raggiunta una qualità particolarmente alta, pur avendo ben presente il concetto che molti manufatti sono variazioni su temi inventati da altri. Alcuni esemplari sono straordinari, sebbene provengano, come nel caso di certe maioliche, da un assemblaggio di incisioni, o, come nel caso di armi e armature, siano frutto di un lavoro a più mani, o ancora, come per i tessuti, il progettista sia sempre ignoto - dimostrazione che l’arte non è una vicenda di soli pittori e scultori. Ognuno degli oggetti in mostra è stato fatto per essere preso in mano, indossato, girato, aperto e chiuso, per risplendere in diverse condizioni di luce, per essere, in sostanza, usato. Ognuno avrebbe una storia da raccontare: abbiamo cercato, scegliendo esemplari ricchi di significati, di illuminarne alcune. Alcune delle opere esposte sono particolarmente fragili e delicate, e per ciò siamo grati agli importantissimi musei (dal Louvre al Kunsthistorisches Museum, al Victoria and Albert Museum) che hanno creduto a questa esposizione.

L’altra chiave di lettura della mostra è legata ai sistemi produttivi. Ogni gruppo di oggetti rappresenta un luogo e una modalità di lavoro legata a un territorio, originata dall’abbondanza di certe materie prime, dalla potenza commerciale e dalla capacità di promozione: i banchi di corallo di Trapani, le miniere e le vie d’acqua della Lombardia, i porti di Venezia e di Genova sono stati fattori determinanti per il successo di una manifattura. Lo è stato spesso anche l’appoggio di una corte, che promuoveva una azione di marketing, acquistava e donava prodotti. Dove mancava la corte, risultava importante il controllo statale sulla qualità: il tessuto veneziano o genovese veniva sottoposto a normative rigide, che ne rendevano inconfondibile il marchio. Altro sistema per espandere la propria fama era firmare e indicare il luogo di produzione: in mostra si possono ammirare maioliche cinquecentesche che presentano tutte l’indicazione del luogo di origine, antenata dell’etichetta Made in Italy. La tradizione italiana delle imprese a base familiare è la stessa che nel passato garantiva la prosecuzione dell’attività tra generazioni; i rapporti familiari consentivano di assumere commesse, di associarsi o dividersi a seconda delle necessità. I matrimoni tra famiglie impegnate nelle stesse attività erano frequenti quanto necessari per tramandare le conoscenze tecniche.

Nel percorso della mostra troviamo gli armaioli Negroli, l’atelier praghese dei Miseroni, filiazione di quello milanese, le maioliche dei Fontana e dei Patanazzi, tutte società a base familiare attive per generazioni. Una bottega famosa usava vari sistemi per promuovere la propria attività. Ovviamente i buoni rapporti con i governanti favorivano l’espansione; le donne d’alto lignaggio sposate fuori dal proprio stato promuovevano le produzioni della terra d’origine, e gli ambasciatori facevano lo stesso anche oltralpe. Quando la produzione era fiorente ci si poteva permettere addirittura di avere agenti all’estero, come nel caso di alcuni armaioli milanesi. Viceversa, i mercanti stranieri che avevano basi in Italia, ad esempio a Venezia, diventavano tramiti per l’esportazione. I mercanti-banchieri e le famiglie nobiliari tedesche che ordinavano servizi in maiolica in Italia erano spesso proprietari di compagnie che avevano rami d’azienda nella penisola. Viaggiavano più facilmente le maioliche dei quadri, ed è attraverso questi oggetti che il repertorio delle immagini dei grandi artisti del Rinascimento arrivava in tutta Europa. Raggiunto poi un livello d’eccellenza, erano i grandi committenti a muoversi: se l’imperatore Carlo V, Enrico II di Francia, i duchi d’Urbino, Emanuele Filiberto di Savoia si servivano a Milano dai Negroli per le armature era dovuto alla qualità e al rinnovamento delle forme, e lo stesso vale per i cristalli dei Miseroni e dei Saracchi. Ma se le botteghe milanesi del Cinquecento guardavano soprattutto alla Spagna e all’Impero, le produzioni genovesi e veneziane, grazie alle compagnie di navigazione, riuscivano ad arrivare ovunque in Europa fin dal Medioevo: è il caso delle stoffe giunte in Scandinavia, dei vetri trovati negli scavi dei paesi baltici, dei tessuti genovesi presenti nell’inventario del re d’Inghilterra Enrico VIII.

La delocalizzazione in tempo di crisi esisteva già nell’antichità. I tessitori lucchesi, che esportavano in tutta Europa, con la presa del potere da parte di Castruccio Castracani nel 1316, “in grandissimo numero, chi per paura, chi per sospetto, si partirono di Lucca, e andarono chi a Vinegia, altri a Fiorenza, altri a Milano e a Bologna, parte in Alemagna, parte in Francia e in Inghilterra; e quindi il mestiero de’ drappi di seta, mediante il quale erano famosissimi divenuti, cominciò per tutto ad esercitarsi”. Così una cronaca del tempo. Il successo di questi “marchi italiani” porta con sé, fin dal Medioevo, il problema delle falsificazioni. In mostra è esposto un caso singolare: il tessuto trecentesco di Palazzo Madama, forse una gualdrappa da cavallo, probabile copia di modelli italiani eseguita nel Mediterraneo orientale. Le stoffe sono tra le opere più imitate, perché smontarle, studiarne la struttura e riprodurle era sempre possibile per una mano esperta. Così negli inventari parigini del cardinale Mazzarino si trovavano numerose pezze “à la façon de Gênnes” e a episodi di spionaggio industriale seguirono tentativi di trasferire maestranze liguri in Francia. Possedere una stanza arredata con damaschi genovesi rappresentava uno status symbol, così come accade tuttora ai prodotti di marchi famosi o dal design innovativo.

Questa storia comincia nel Duecento, con i tessitori lucchesi e veneziani, e finisce alle soglie dell’età industriale. Le sale della mostra sono organizzate in percorsi paralleli: uno indaga i materiali lavorati (bronzo, metallo, tessuto, maiolica, corallo), l’altro le città produttrici: Venezia, Milano, Genova. Ogni storia di materiali è storia della cultura e dell’economia di un territorio, e ogni territorio è particolarmente votato alla realizzazione di certi materiali. Nella prima sala si presenta la Venezia del Medioevo, uno straordinario luogo di creazione e di scambi di prodotti di lusso: sete, cristalli, cofanetti e specchi in cornici di avorio e osso.

Si prosegue con i bronzi di piccole dimensioni diffusisi da Padova in tutto il nord est dell’Italia all’inizio del Cinquecento: oggetti d’arredo dal raffinato contenuto intellettuale, esercitazioni sui temi dell’antico disponibili per l’ammirazione e lo studio dei principi e dei dotti.

La Lombardia dal Duecento al Settecento era la più grande produttrice di oggetti metallici: armature ricercate in tutta Europa, come quella magnifica appartenuta a Enrico II di Francia, e ricca dei suoi emblemi, mobilio, forzieri, e poi spade, archibugi, pistole; in mostra è esposto anche un particolarissimo mappamondo metallico intarsiato in oro ed argento.

Il focus successivo è sulla Milano della seconda metà del Cinquecento: un altro dei luoghi in cui si concentrava un altissimo livello di qualità, e gli artisti fornivano modelli a orafi, incisori, ricamatori. Oggetti che le famiglie regnanti si contendevano, e artefici che venivano invitati a trasferirsi all’estero e ad impiantare botteghe italiane ovunque: raccontano questa vicenda le coppe praghesi dei Miseroni, i cammei oggi a Vienna, le armature da parata degli imperatori, tra cui spicca l’insieme straordinario di elmo all’antica con testa di leone e scudo con la Medusa.

Due sale raccontano poi la diffusione della maiolica italiana. Gli stemmi delle famiglie straniere mostrano come si venisse in Italia a ordinare i servizi di nozze, mentre le città italiane moltiplicavano le produzioni in un incessante movimento di botteghe e di gruppi familiari che si scambiavano esperienze e modelli.

L’ultima città presa in esame è Genova dove, nella seconda metà del Cinquecento, più della metà della popolazione era impegnata nella lavorazione e nel commercio della seta. I grandi damaschi e i più bei velluti del mondo erano contesi, copiati e imitati ovunque. La sala con il grande letto ricamato di Albisola e i seicenteschi teli in velluto provenienti dal palazzo genovese dei Doria punta a ricostruire anche visivamente la ricchezza d’arredo della città.

Infine la produzione siciliana dei coralli, che ha le sue radici nel Quattrocento e perdura con i lavori di grandi dimensioni i trionfi e con quelli “in picciolo” fino al Settecento, contesa anche questa da principi e collezionisti anche per il valore di protezione che al corallo è attribuito fin dall’antichità.

La collezione di manufatti presentata nella sezione della mostra a cura di Barbara Brondi e Marco Rainò, è riferita ad un’ipotesi di definizione di alcune interpretazioni “poetiche” della cultura del fare collegabili in modo diretto ad un “sentire” di tipo artigianale. In un unico ambiente espositivo si è voluto riunire un corpo di lavori utili a presentare il frutto dell’attività di auto-produzione o di progettazione per realtà manifatturiere d’eccellenza da parte di alcuni designer italiani, riferendosi ad un arco di osservazione temporale compreso nell’ultimo decennio, anche nel tentativo di alimentare un ragionamento che possa significativamente ritenersi valido se proiettato nell’immediato futuro.

La riflessione, consciamente parziale, è volutamente mirata a identificare una delle possibili, specifiche manifestazioni odierne del processo che coniuga le attività del progetto a quelle della produzione, concentrandosi su opere realizzate secondo i criteri artigianali della serie limitata, quando non addirittura del pezzo unico.

La tesi di fondo dell’analisi proposta è unica: che la “cultura del fare”, intesa come la capacità di "ideazione creativa” coniugata al “sapere fabbricare", continui a essere oggi come in passato una prerogativa dell’azione produttiva italiana, definendo una specifica eccellenza che distingue, qualifica e valorizza ciò che viene “fatto in Italia” in tutto il resto del mondo.

Tra le figure professionali dedite all’attività di progettazione nel panorama contemporaneo, quella del designer sembra riassumere alcuni dei tratti chiave che definivano la figura dell’antico Maestro di bottega, non solo detentore di una raffinata conoscenza della materia praticata, ma anche responsabile della strategia organizzativa attraverso la quale prendeva sostanza il processo di ideazione e realizzazione di uno specifico lavoro.

Vocazione alla ricerca e interesse per la sperimentazione sono i caratteri che accomunano gli autori presentati in “Poetiche contemporanee”, capaci di interpretare il ruolo di progettista esplorando i territori di un’espressività poetica che, oltre a produrre degli esiti tangibili rispondenti a precisi requisiti di tipo formale e funzionale, intendono caricare l’oggetto di rilevanti valenze significative, anche simboliche.

Ciascun manufatto – in alcuni casi compreso in una collezione-famiglia – acquista quindi il valore di un vettore di senso, assumendo l’identità di un dispositivo in grado di assorbire e poi rilasciare specifiche narrazioni, nel tentativo di stabilire con il suo utilizzatore un legame di corrispondenza emotiva e affettiva anche utile ad attivare un rapporto di tipo empatico.

Nelle opere che si susseguono lungo il percorso di visita della sezione contemporanea, si ritrovano in modo più o meno evidente le tracce di una lunga, ricchissima e complessa cultura tradizionale italiana del “fare a mano”: echi di un modo di praticare antico, certo, ma anche sintomi di un’interpretazione di questa prassi che sono stati canonizzati e messi a frutto in tempi più recenti, come nel periodo modernista.

Riferendoci a questa stagione, ad esempio, è interessante notare come nei manufatti contemporanei in mostra, si registri la persistenza di un’influenza che punta a coniugare due polarità di ricerca tra loro distinte: se per un verso i manufatti sembrano incorporare la lezione di un’artigianalità artistica che trovava sbocco nella produzione dell’industria – si pensi alla lezione di Gio Ponti – per l’altro, sono le sperimentazioni in laboratorio, uniche e raramente ripetibili, del “designer senza industria” – come nel caso della magistrale attività di realizzazione di prodotto firmata da Carlo Mollino.

In ogni caso, nella fattura di ogni pezzo esposto è percepibile una cura del dettaglio, una perizia nella scelta dei materiali, un’inopinabile qualità nella selezione degli strumenti e delle tecniche utilizzate nella sua esecuzione; aspetti che, oltre a manifestare le distinte sensibilità dei progettisti, derivano da un costante, intenso rapporto di dialogo e collaborazione di questi con una nutrita schiera di maestranze artigianali altamente specializzate.

È anche attraverso questo genere di produzioni che si conserva e tramanda la memoria di uno specifico sapere, per poi dare un nuovo impulso a specifici settori di operosità artigianale con l’obiettivo di rinnovare la straordinaria tradizione manifatturiera italiana e stimolare la sua economia; è anche in questa direzione che bisogna muoversi per formulare nuovi paradigmi attraverso i quali esprimere ed aggiornare un complesso di competenze teoriche e pratiche che, nel loro insieme, costituiscono un patrimonio culturale di straordinaria rilevanza per il Paese Italia e, di riflesso, per quanti nel mondo ne beneficiano.

In definitiva, l’Italia si conferma un “laboratorio” privilegiato per una nuova generazione di progettisti che, soggetti all’influsso di una cultura millenaria, cercano nuove ispirazioni estetiche e propongono formule aggiornate per preservare le conoscenze delle storiche maestranze localizzate sul territorio della penisola.

Il DIY (Do It Yourself) applicato a procedure classiche di manifattura artigianale – di lavorazione del marmo, del vetro, della ceramica, dell’arte orafa – così come il ricorso alle nuove tecnologie – di modellazione, di stampa tridimensionale, di taglio o assemblaggio – si associano a prassi esecutive di nuovo conio, che prevedono l’ibridazione dei saperi tradizionali con quelli di più recente determinazione.

Questo tipo di approccio, infine, intende promuovere un’arte del fare che si interroga non solo sulle modalità di produzione – con il desiderio di renderle plausibilmente sostenibili sotto il profilo dell’impatto ambientale – ma anche su quelle della distribuzione, spingendosi a ipotizzare in molti casi dei veri e propri ribaltamenti semantici e concettuali del convenzionale rapporto tra l’autore e il fruitore, spesso “complici” nel definire le modalità d’uso dell’oggetto o la sua configurazione formale finale.

 
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