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Un viaggio nel lodigiano è l'occasione giusta per assaporare vecchie ricette lodigiane e per scoprire un territorio ricco d'arte e tradizione, bello per gli aspetti naturali che lo rendono unico in qualsiasi stagione.
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Granone lodigiano

A tavola nel lodigiano

Il vero e unico re dei formaggi lodigiani è il granone lodigiano. Nei diari dei casari, vere enciclopedie di scienza e di esperienza, oggi divenuti manuali di tecnica casearia, il granone veniva chiamato 'formaggio all'uso lodigiano'.
Allo stesso modo, il formaggio prodotto secondo la tecnica in uso a Sud del Po veniva definito 'formaggio all'uso reggiano'. Ora, lungi da me voler fare della polemica, ma ritengo importante che su questo tema si faccia una volta per tutte chiarezza: soprattutto di fronte a casi in cui si cerca di camuffare con vari colori formaggi che nulla hanno a che vedere con il vero granone.
So queste cose perchè ho la fortuna di poter sfogliare liberamente i diari dei casari, sacri testi del sapere caseario, e vanto il privilegio di possedere il diario scritto a mano nel 1876 dai casari della Cascina Selvagreca, che custodisco come un tesoro tra i miei oggetti più preziosi. Questa Cascina avrebbe avuto poi una storia singolare: dopo qualche anno infatti fu in quella sede fondato il primo nucleo di quello che sarebbe divenuto anni più tardi la "Regia Stazione Sperimentale del Caseificio', cioè l'organismo internazionale più importante e accreditato per il settore lattiero caseario nel mondo. Al suo interno veniva gestita la famosa "Scuola di specializzazione tecnico-casearia", di fatto scomparsa nel 1969, anno dell'istituzione dei corsi di Scienza della Produzione Alimentare all'interno della Facoltà di Agraria Italiana.
Parlando del granone in questa sede, non vorrei dilungarmi a descriverne la tecnologia di fabbricazione: in realtà, più che per una questione di brevità, preferisco non rivelare un segreto che condivido gelosamente solo con pochi dei miei allievi. In passato, ho già avuto occasione di descrivere almeno parzialmente il processo di produzione del granone nel mio 'Manuale del tecnico caseario', ma anche in quella sede senza mai addentrarmi nei dettagli di quel processo antichissimo e originale.
Nonostante il mio inesauribile entusiasmo di tecnico caseario e di mangiatore di formaggi, devo tuttavia concordare con alcuni miei amici esperti di marketing su alcune debolezze intrinseche del granone: il suo sapore troppo forte e particolare difficilmente può incontrare i gusti dei giovani di oggi, abituati a cibi ormai insipidi. Inoltre la notevole durata della stagionatura obbliga il produttore ad una prolungata, e quindi costosa immobilizzazione di capitali. Ma tali caratteristiche, che di fatto stroncherebbero qualunque tentativo di promozione di massa del granone, ne fanno invece una specialità alimentare ghiottissima ed economicamente interessante se proposta ad un mercato di nicchia, ad un'elite in grado di apprezzarne la particolarità, il gusto e la genuinità offerte, manco a dirlo, al giusto prezzo. Per realizzare questo progetto, occorre però che il granone venga tutelato sia economicamente che giuridicamente per potergli sempre garantire quella protezione necessaria a un prodotto di specialità, soprattutto a fronte di investimenti mirati da parte dei soggetti interessati.  

D'altro lato, però, il granone offre alcune caratteristiche che lo rendono singolare ed attraente. Tra queste, potrei menzionare che esso è annoverato nella categoria merceologica dei formaggi magri, aventi un contenuto di grasso sul secco del 25%. Tale caratteristica gli viene dal fatto di essere ottenuto con la lavorazione di latte scremato di tre mungiture: in parole semplici, la sua tecnologia di produzione prevede che al latte venga lasciato il tempo di far affiorare la panna fino a diventare sufficientemente acido e magro.
Non dimentichiamo che il granone poi offre un altro vantaggio particolare: storicamente le forme che venivano giudicate non idonee ad una stagionatura di lungo periodo e che quindi non potevano essere vendute a prezzo pieno venivano consumate ancora fresche. Per accentuarne il sapore delicato venivano raspate in scaglie sottili, facili da gustare anche per papille inesperte: ecco dunque come nacque la raspadura.

Il formaggio detto da raspa era in realtà un sottoprodotto di quello buono da stagionatura: la raspa rappresentava un'ingegnosa astuzia contadina per valorizzare il sapore di un formaggio in realtà di seconda scelta, ulteriore esempio questo della fantasia e creatività dei casari lodigiani.
Testi tratti da:
A. Frosio, "La nobiltà del latte nella cultura casearia della cascina lüdesana", in "A tavola nel Lodigiano" Storia, cronaca e attualità del prodotto tipico (a cura di Angelo Stroppa), Franco Angeli, Milano 2002, pp. 33-34, 38-39-40-41.

Mascarpone

Il formaggio mascarpone è un lodigiano purosangue deve il suo nome alla parola dialettale lodigiana mascherpa che indica il fenomeno di agglomerazione della panna del latte. Infatti il vero mascarpone è il prodotto della coagulazione della panna fresca precedentemente riscaldata a bagnomaria a 90 C°.
L'agente coagulante oggi usato è una soluzione di acido citrico (in pratica, succo di limone), anche se un tempo venivano usati anche altri tipi di acidi.
Dopo l'aggiunta del coagulante, occorre dare il tempo alla massa di rassodarsi mantenendola nel frattempo in agitazione: successivamente essa viene versata in apposite tele di lino affinché dalle sue maglie sgrondi il siero. A questo punto la massa viene lasciata per alcune ore in un ambiente fresco e ben aerato; quando raggiunge una consistenza ben compatta e densa, viene raccolta in fagotti e posta in cella. Naturalmente ogni cascina aveva il suo sistema di conservarlo: chi con recipienti di vetro, chi con vasi di porcellana; molti lo lasciavano in fagotti appesi in cella e lo distribuivano fresco direttamente nei piatti. E' chiaro che in queste condizioni il tempo di conservazione era molto breve e pertanto la produzione del mascarpone era di fatto limitata ai soli mesi invernali.
Il mascarpone è un formaggio di inestimabile valore per il Lodigiano. Non ho esitato a definirlo in una mia precedente pubblicazione 'l'oro di Lodi', sia per il grande valore che ha avuto nell'economia di scambio delle cascine, ma soprattutto in quanto ingrediente fondamentale di alcuni dolci tipici lodigiani ormai famosi in tutto il mondo: basta citare il tiramisù o i famosi cannoli lodigiani, che ogni giorno i cittadini di Lodi possono gustare beatamente seduti nella loro piazza.
Ultimamente però devo constatare che il tiramisù ha subito delle manipolazioni che lo hanno snaturato: a causa di interessi puramente economici, il mascarpone come ingrediente è stato infatti sostituito con altri prodotti similari, più a buon prezzo e disponibili dovunque. Senza il mascarpone lodigiano, il tiramisù perde la forte componente energetica che ne ha motivato il nome e diventa così un dolce uguale a tanti altri.
Testi tratti da:
A. Frosio, "La nobiltà del latte nella cultura casearia della cascina lüdesana", in "A tavola nel Lodigiano" Storia, cronaca e attualità del prodotto tipico (a cura di Angelo Stroppa), Franco Angeli, Milano 2002, pp. 33-34, 38-39-40-41.

Panerone o Pannerone

Il formaggio che più mi sta a cuore e per la cui sopravvivenza mi sono battuto tenacemente è il panerone. Deriva il suo nome dalla parola dialettale lombarda "panera", che significa panna, cioè la crema del latte. Va ricordato che anche Ugo Foscolo chiamò Milano con l'appellativo di Paneropoli, ossia la città della panera. Si tratta dell'unico formaggio prodotto nel lodigiano che abbia conservato intatte le caratteristiche di un tempo, anche per quanto concerne la tecnica di fabbricazione che lo distingue da tutti gli altri. E' prodotto esclusivamente con latte crudo, senza l'aggiunta di sostanze chimico-biologiche di alcun genere: tale caratteristica peculiare lo rende un prodotto soggetto a subire le naturali variazioni d'annata del latte, con il risultato però di rendere molto difficile l'ottenimento di caratteristiche standard. E' un formaggio grasso a pasta molle e cruda, con un coagulo ad acidità naturale e con una maturazione rapida, che si distingue da tutti gli altri formaggi tipici italiani per non essere sottoposto ad alcun trattamento di salatura.
Prodotto unicamente nel Lodigiano, viene commercializzato in tutta Italia ed è particolarmente apprezzato, oltre che naturalmente a Lodi e Milano, nel Veneto e in Toscana. Ha una forma cilindrica con facce piane, un diametro di 30 cm. ed una altezza di 20. Il peso di una forma stagionata si aggira intorno ai 12 Kg. Il formaggio maturo presenta all'esterno una crosta giallognola, a volte leggermente rosata, sottile e friabile.
La pasta appare all'interno di colore bianco paglierino, provvista di alveoli (occhiature) che danno al prodotto un tipico aspetto vaiolato. Questa caratteristica è dovuta al fatto che, oltre alla normale fermentazione lattica, all'interno del formaggio si ha pure una fermentazione alcolica durante il periodo della stufatura. Il sapore del formaggio rimane dolce e butirroso, con una punta di amarognolo: non deve risultare acido o piccante, come invece avviene nei formaggi troppo stagionati oppure nei prodotti derivati da latte con caratteristiche anticasearie.
I periodi tipici per la produzione di questo formaggio sono l'autunno, l'inverno e la primavera. Il latte viene coagulato alla temperatura di 28-30 C, impiegando 50 cc di caglio liquido (titolo 1:10.000) per ettolitro di latte. Dopo circa 20 minuti dall'introduzione del caglio la massa caseosa presenta una consistenza tale da provocare uno spacco netto: si procede a questo punto ad un rivoltamento superficiale mediante spannarola. Successivamente, per mezzo della lira o di altro strumento, si rompe la cagliata fino ad ottenere grumi della dimensione di una noce. Lasciata a riposo per alcuni minuti, con la spannarola o altro mezzo si riprende la cagliata e si procede a romperla di nuovo molto delicatamente fino a ridurne i grumi caseosi a dimensioni di una nocciola.
A rottura ultimata si mantiene la cagliata sempre in leggera agitazione fino a che i granuli caseosi divengono di colore giallognolo, lucidi e leggermente contratti. La temperatura dei locali di fabbricazione del pannerone si aggira intorno ai 25-30 C. Le fasi di rottura hanno una durata complessiva di circa 40 minuti e nel corso di queste operazioni la cagliata deve essere sempre tenuta in agitazione. Durante queste fasi alcune brevi soste danno modo alla cagliata di depositare: in tal modo è possibile togliere una parte superficiale di siero per consentire un più facile controllo delle operazioni. Mantenendo la cagliata sempre in movimento, la si estrae con delle tele. Si formano così dei fagotti del peso di circa 8 kg che vengono collocati l'uno accanto all'altro in un secchio o in una caldaia di rame per lasciarli sgocciolare. Una volta raggiunto il punto di prosciugamento, che l'esperto caseario sa individuare con certezza, i fagotti si portano in un altro locale, sempre riscaldato, dove vengono depositati negli appositi stampi di legno o fascere a forma cilindrica.
Le fascere vengono riempite di cagliata fino a che non si forma al di sopra di esse una cupola. Con il progressivo procedere dello sgrondo, facilitato dal fatto che sotto le forme vengono poste delle persianine, i formaggi assumono una certa convessità verso il centro e devono essere rivoltati sistematicamente. Il giorno dopo essi vengono portati in un locale a temperatura di circa 25 C, dove rimangono per 5-6 giorni, con la cura di effettuare il rivoltamento almeno una volta al giorno. Durante questa fase, le fascere vengono sostituite con carta speciale circondata da sottili fascettature, sempre di legno. In breve, i formaggi si ricoprono superficialmente di una leggera muffa bianca, che alla fine della maturazione sarà rimossa accuratamente con un lavaggio di siero caldo. Una volta raggiunta la quasi completa maturazione, i formaggi vengono spostati in un ambiente mantenuto a circa 8-10 C, dove rimarranno per altri 8 giorni circa, fino al momento della loro vendita.

Da approfonditi studi storici risulta che la fabbricazione del pannerone non ha subito nel corso dei secoli alcuna significativa variazione. Ricerche svolte in anni recenti sulla possibilità di fabbricare questo formaggio da latte pastorizzato, con successive aggiunte di colture selezionate, non hanno condotto ad alcun risultato. La maturazione del panerone è infatti molto diversa da quella di tutti gli altri formaggi. Come segnalato da Renko nel 1958 in uno studio apparso sulla rivista "Il Latte" e successivamente confermato da altri autori (Galli, Rondini, Ottogalli, Volonterio), essa avviene ad opera di un tipo particolare di microflora (batteri lattici, coliformi e lieviti) selezionatisi in funzione della tecnologia impiegata per la sua produzione. La tipica alveolatura diffusa nella pasta - considerata negli altri formaggi un difetto grave - avviene grazie all'attività di lieviti e di coliformi, che in breve tempo operano profonde trasformazioni della cagliata. Le forme, pur mantenendo le facce piane, si presentano esteriormente rigonfiate per via dell'aumento di volume che è segnale di buona riuscita del formaggio.

Il pannerone viene impiegato in numerose ricette, ma è soprattutto gradito e consumato al naturale a fine pasto. I maestri culinari lodigiani propongono anche di servirlo accompagnato con mostarda, miele e soprattutto pere cotte. Come dimostra l'episodio di Napoleone, che in abbondanza rifornì le proprie truppe di pannerone prima della battaglia del ponte di Lodi (1796), è formaggio dotato di alti poteri energetici e afrodisiaci, per la presenza di fosforo e alcool.
Testi tratti da:
A. Frosio, "La nobiltà del latte nella cultura casearia della cascina lüdesana", in "A tavola nel Lodigiano" Storia, cronaca e attualità del prodotto tipico (a cura di Angelo Stroppa), Franco Angeli, Milano 2002, pp. 33-34, 38-39-40-41.

Tortionata

La Tortionata è il dolce che più caratterizza il territorio. Viene infatti descritta nelle specialità lombarde come 'dolce tipico lodigiano'. E' una torta di mandorle che vanta antiche origini: la ricetta è stata codificata nel 1885 dal pasticcere lodigiano Alessandro Tacchinardi ma presumibilmente risale al tardo medioevo, avendo le caratteristiche tipiche dei dolci dell'epoca: la forma tonda, la presenza di mandorle, la mancanza di lievitazione che la mantiene bassa, la morbidezza nonostante sia una torta secca; con ogni probabilità all'epoca, per la scarsità di uova, gli ingredienti venivano legati col miele.
Di certo la torta è già diffusa a Lodi nei primi dell'800, grazie all'opera di Carlo Tacchinardi, capostipite della famiglia di offellieri (l'offella era un focaccia dolce). La tradizione è portata avanti dai figli Giovanni e Gaetano e poi dal figlio di quest'ultimo Alessandro a cui, secondo la tradizione popolare, si deve il nome Tortionata. Alessandro l'avrebbe chiamata così perché era la "torta di quando io sono nato, ovvero torta io nata". (3) Altra versione attribuisce il nome a tortijon, fil di ferro attorcigliato, al quale la torta veniva equiparata per la difficoltà ad essere tagliata a fette: inevitabilmente si rompe a pezzetti.
Dopo la morte di Gaetano, l'ultimo discendente dei Tacchinardi, che cedette l'attività nel 1955 per sopraggiunti limiti d'età, la tradizione della tortionata è proseguita. Oggi viene prodotta nel segno della continuità dai gestori del bar pasticceria di Palazzo Vistarini, in piazza della Vittoria a Lodi, che porta ancora il nome dei Tacchinardi, e dalla pasticceria Mazzucchi di Lodivecchio: Luigi Mazzucchi, oggi in pensione, ha imparato i segreti della Tortionata direttamente da Gaetano Tacchinardi quando, ancora quattordicenne, fu accolto nella sua bottega ad imparare il mestiere. E' diffusa anche nelle altre pasticcerie come "Torta di Lodi".
La ricetta della tortionata miscela in gran quantità del buon burro fresco, ingrediente di cui c'è sempre stata abbondanza grazie alla produzione delle stalle e delle casere lodigiane, con farina bianca e mandorle pelate provenienti dalla Puglia. L'origine di questo ingrediente è da attribuirsi, con ogni probabilità, alla presenza nelle nostre terre di mercanti che importavano i vini marsalati, alquanto richiesti.
In quanto a vini, la degustazione della Tortionata, imbiancata con una spruzzata di zucchero a velo, può essere felicemente accompagnata dal moscato o dal malvasia dolce ma anche dallo spumante, dal vino secco o passito.
La torta è ancora oggi molto apprezzata: i lodigiani non dimenticano di portarla sulla propria tavola o di recarla in dono nelle loro trasferte.
Oggi è entrata a far parte di diritto del Consorzio di Tutela dei Prodotti Tipici Lodigiani.
Tra le altre produzioni tradizionali di Lodi ricordiamo l'agnello pasquale di sfoglia farcito alle creme, i cannoli lodigiani ripieni di mascarpone, gli amaretti e gli amaretti morbidi al cacao.
Testi tratti da:
L. De Benedetti, "Dolci & golosità", in "A tavola nel Lodigiano" Storia, cronaca e attualità del prodotto tipico (a cura di Angelo Stroppa), Franco Angeli, Milano 2002, pp. 73,74,75,76,77.

Il biscotto di Codogno

Cascina del lodigiano

Il Biscotto di Codogno è il 'dolce' lodigiano che sembra vantare la più antica registrazione del marchio d'impresa e dunque una propria produzione tipica.
L'offelliere Angelo Cornali nel 1880 acquista uno stabile a Codogno e, tre anni dopo l'apertura del negozio, inizia a produrre il proprio biscotto con il marchio di fabbrica inciso a mezzo di un vecchio stampo ovale. Non è un caso se nel 1913 ottiene la croce di benemerito del lavoro e i suoi concittadini lo soprannominano "Bella testa" per la fervida creatività: Cornali porta il biscotto lodigiano in giro per le fiere campionarie d'Italia e d'Europa, ottenendo molte di quelle medaglie che risultano raffigurate sulle confezioni di metallo o di cartone che ancor oggi si trovano sugli scaffali dell'esposizione della pasticceria di via Roma. Anche l'insegna sulla strada, fedelmente riprodotta in occasione della ricorrenza del centenario del biscotto di Codogno, è la stessa che risulta dalla foto in bianco e nero dell'inaugurazione dell'attività.
E' il figlio Mario, a fine '800, a caratterizzare il biscotto ricoprendolo con un prodotto tutt'altro che Lodigiano: il cocco. Cosa questa che causa l'interruzione della produzione negli anni delle due guerre mondiali, a causa delle difficoltà d'importazione. La tradizione continua grazie al figlio Giuseppe e, oggi, ai pronipoti Carlo, Luigi e Luciano. Nel 1983 per celebrare i 100 anni del Biscotto Codogno i fratelli Cornali propongono una versione del biscotto al cioccolato dopo aver studiato una miscela di gianduia fondente e latte aromatizzato con olio essenziale di cedro che ben si sposano con il sapore del cocco.
Il biscotto di Codogno, dalla pasta friabile e la forma allungata, è prodotto in maniera artigianale con farina di frumento, zucchero, burro, margarina vegetale, fecola, uova, amido, cocco, vanillina e lievitanti. Confezionato e sigillato ha una conservabilità di un anno. Avendo tutti i requisiti per essere considerato un pasticcino, il suo consumo ideale è alla fine del pasto, accompagnato da un vino dolce, passito, moscato o malvasia, in orario pomeridiano, gustato col tè, oppure servito con la crema lodigiana al mascarpone.
Testi tratti da:
L. De Benedetti, "Dolci & golosità", in "A tavola nel Lodigiano" Storia, cronaca e attualità del prodotto tipico (a cura di Angelo Stroppa), Franco Angeli, Milano 2002, pp. 73,74,75,76,77.

La cotognata

La cotognata, marmellata in cubetti ricoperti di zucchero, deve il suo nome alle mele cotogne e dunque è dolce tipico delle zone di produzione del frutto. I codognesi ne attribuiscono l'origine al proprio territorio dove, in passato, la coltivazione del melo era ampia: proprio il cotogno, con una lupa, è il simbolo della città. Agli inizi del secolo, ai primi di ottobre, in tempo di raccolto, la mela con lo zucchero e il gelificante venivano amalgamati e cotti in ampi paioli di rame. Oggi si usano caldaie in acciaio, ma la produzione resta artigianale. I fratelli Cornali, ad esempio, assicurano la produzione al 100% con mele cotogne non trattate, ridotte a purea insieme alla buccia per mantenerne integre le proprietà organolettiche. I pasticcieri codognesi ne consigliano la degustazione, oltre che a fine pasto o col tè, abbinata alla raspadura.
Testi tratti da:
L. De Benedetti, "Dolci & golosità", in "A tavola nel Lodigiano" Storia, cronaca e attualità del prodotto tipico (a cura di Angelo Stroppa), Franco Angeli, Milano 2002, pp. 73,74,75,76,77.

Turta de Casal

La Torta di Casale, la cui origine si perde nella notte dei tempi, è sicuramente una torta nata come 'arte povera', fatta in casa. La ricetta è molto semplice. Tre gli ingredienti regolati da precise proporzioni: il quantitativo di burro deve essere la metà rispetto alla farina; il quantitativo di zucchero, la metà del burro. L'abilità, assicurano alla Pro Loco, che ne tramanda con cura la tradizione, sta nel riuscire ad impastare tutto con la forza delle mani, senza utilizzare uova o altri elementi che servono per legare. La torta viene poi guarnita con mele o pere. Il dolce, secondo tradizione, viene prodotto in grande quantità nelle case in occasione della sagra di San Bartolomeo, il 24 agosto. L'usanza vuole che vengano preparati molti impasti per essere poi conservati e gustati, ricoperti di mandorle, una settimana dopo, per la sagra dei Cappuccini.
Testi tratti da:
L. De Benedetti, "Dolci & golosità", in "A tavola nel Lodigiano" Storia, cronaca e attualità del prodotto tipico (a cura di Angelo Stroppa), Franco Angeli, Milano 2002, pp. 73,74,75,76,77.

I Calissoni

L'origine della ricetta e del nome è incerta ma i Calissoni, biscotti gustati da almeno una generazione di abitanti di Casalpusterlengo, hanno le carte in regola per diventare nel tempo un prodotto tipico. Il classico dolcetto che si ama portare, come regalo non impegnativo e simbolo della propria città, ovunque si vada. Sono rustici biscotti di pasta frolla, fatti con farina di frumento, ricoperti di sciroppo di zucchero e zucchero semolato, ideali da gustare anch'essi a colazione, a merenda o per concludere in dolcezza un pasto.
Testi tratti da:
L. De Benedetti, "Dolci & golosità", in "A tavola nel Lodigiano" Storia, cronaca e attualità del prodotto tipico (a cura di Angelo Stroppa), Franco Angeli, Milano 2002, pp. 73,74,75,76,77.

Gli amaretti di Sant'Angelo

Amaretti di Sant"In Italia gli amaretti migliori sono: i Saronno, i Sassello e i Sant'Angelo": Renzo Rozza, pasticciere di Sant'Angelo ora in pensione, non ha dubbi. E cita un lungo elenco di premi vinti dagli amaretti barasini, sin dall'800, nelle fiere campionarie italiane e internazionali. Ricorda poi che gli amaretti venivano spediti regolarmente oltre oceano alla suore americane di Madre Francesca Cabrini, santangiolina di nascita, patrona degli emigranti. E ancora oggi gli amaretti vengono portati in omaggio dai lodigiani in giro per il mondo: li hanno gustati anche il Papa e il Patriarca di Gerusalemme.
Di certo a Sant'Angelo esisteva una ricca produzione di amaretti. Tre i nomi che divennero famosi, codificando tre diverse ricette: i Nosotti, prodotti almeno dal 1833, i Gallina e i Gatti, la cui produzione è databile dalla fine dell'Ottocento. Oggi questi amaretti si trovano ancora nel Lodigiano ma la produzione è stata trasferita: quella dei Gallina nel Bolognese, quella dei Gatti nel Pavese. Pare invece che a Sant'Angelo stia per ripartire la produzione dei Nosotti.
La tradizione degli amaretti lodigiani, comunque, è proseguita localmente sul filone della tradizione: sul finire degli anni '60 sono nati gli 'amaretti di Sant'Angelo' anche se oggi la produzione è stata trasferita a Lodi Vecchio, dai pasticcieri Mazzucchi. D'altra parte il legame del territorio con questo dolcetto croccante e friabile dal fondo amarognolo è forte: gli amaretti vengono gustati intingendoli nel vino, accompagnati a mascarpone o crema alla lodigiana ma vengono utilizzati anche come elemento base per la preparazione di altri piatti. Vengono triturati e utilizzati per condire la pasta al burro oppure per arricchire di sapore le polpette alle melanzane; si usano per farcire i tortelli, secondo la tradizione della vicina cucina cremasca. E poi per fare torte, al posto del pan di spagna, o per una variante locale del tiramisù, sostituendo i savoiardi.
Le armelline, mandorle amare di albicocca che provengono dal Medio oriente, in particolare da Damasco, in Siria, sono l'ingrediente principale degli amaretti insieme allo zucchero: le ricette si differenziano poi nella composizione degli aromi naturali. Gli amaretti di Sant'Angelo vengono oggi preparati con il cacao amaro.
Chi li produce, come la Pasticceria Sant'Angelo, raccomanda che gli amaretti siano incartati a mano e non imbustati sotto vuoto: solo la produzione artigianale infatti garantisce la qualità del prodotto perché in fase d'incarto si procede ad una rigorosa selezione.
Anche Sant'Angelo, infine, vanta da quarant'anni una propria torta tipica, la 'Preferita', dove pasta frolla e pasta paradiso vengono legate insieme da una gelatina di albicocche: sopra, immancabilmente, le mandorle.
Testi tratti da:
L. De Benedetti, "Dolci & golosità", in "A tavola nel Lodigiano" Storia, cronaca e attualità del prodotto tipico (a cura di Angelo Stroppa), Franco Angeli, Milano 2002, pp. 73,74,75,76,77  

 

Tratto dal sito www.turismo.provincia.lodi.it

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