I Macchiaioli. Le collezioni svelate I Macchiaioli. Le collezioni svelate
 
Giovanni Fattori Ciociara (ritratto di Amalia Nollemberg) 1881 ca. Olio su tela, 80x58 cm Collezione privata Credito fotografico: Antonio Quattrone Il pannello
Il pannello della mostra, la descrizione delle sale e la contestualizzazione delle opere esposte.
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La grandezza dei Macchiaioli è fatto acclarato dalla storia dell’arte non solo italiana: questo manipolo di artisti – Giovanni Fattori, Silvestro Lega, Giuseppe Abbati, Odoardo Borrani, Raffaello Sernesi, Telemaco Signorini, Giovanni Boldini, Federico Zandomeneghi, Cristiano Banti, Vito D’Ancona, Adriano Cecioni, Vincenzo Cabianca - provenienti da più parti d’Italia hanno dato vita ad uno dei più importanti movimenti pittorici nell’Europa di metà Ottocento.

Il Chiostro del Bramante di Roma ha dedicato nel 2007 una straordinaria esposizione a questi artisti, rappresentandone la vicenda dagli esordi, nel 1855, nel fiorentino Caffè Michelangiolo, sino alle mature e solitarie vicende di Fattori, Lega, Signorini che consegnarono al Novecento la grande eredità della “macchia”. La mostra dei Macchiaioli al Musée de l’Orangerie di Parigi nel 2013 ha ribadito un successo costante e oramai internazionale in ragione del quale il Chiostro del Bramante propone un nuovo, importante appuntamento espositivo dal titolo “I Macchiaioli. Le collezioni svelate”, consentendo al grande pubblico di rivedere i noti capolavori e moltissimi inediti, da un punto di vista nuovo ed originale. Il percorso, ideato da Francesca Dini, consentirà infatti di ammirare i 120 dipinti in mostra nei loro assetti originali, cioè all’interno delle collezioni che per prime li ospitarono nei primi anni del Novecento; entreremo per così dire nelle abitazioni stesse dei collezionisti - Cristiano Banti, Diego Martelli, Rinaldo Carnielo, Edoardo Bruno, Gustavo Sforni, Mario Galli, Enrico Checcucci, Camillo Giussani, Mario Borgiotti - e incontreremo virtualmente questi co-protagonisti della vicenda dei Macchiaioli, i collezionisti appunto.

A Firenze tra Ottocento e Novecento, sopravvissuti all’epoca loro operano gli ultimi macchiaioli: varcano il secolo i soli Banti, Fattori, Borrani, mentre Signorini muore appena nel 1901. Circondati dall’affetto delle nuove generazioni, aspirano – senza ormai averne più le forze – ad un definitivo riconoscimento del loro valore. Nel 1901 si stringono nel ricordo di Diego Martelli, la cui collezione ha trovato una sede istituzionale (sebbene provvisoria) in Palazzo Vecchio. La dissoluzione della collezione di Cristiano Banti, ad opera dei figli, va invece alimentando l’interesse del mercato intorno a questi artisti del recente passato. Ad interessarsi di loro sono ora imprenditori innamorati della bellezza, ora intellettuali impegnati nel dibattito culturale del tempo, ora semplici artisti capaci però di valutare nello specifico i meriti intrinseci della pittura dei Macchiaioli.

Vincenzo Cabianca Il Mattino (Le monachine) 1861-1862 Olio su tela, 36x99 cm Istituto Matteucci, Viareggio Credito fotografico: Viareggio, Istituto Matteucci

La “galleria privata” di Cristiano Banti: i Macchiaioli allo specchio

La raccolta dei dipinti operata da Banti (1824-1904) fiancheggia la vita stessa del movimento toscano, ragion per cui gli artisti macchiaioli ne trassero l’utilità di verificare strada facendo i propri progressi e di riflettere sul proprio percorso; essi si guardarono per così dire “allo specchio” ed alcuni di loro, più longevi furono infine testimoni della sua dissoluzione.

Se consideriamo il 1862 - anno in cui Banti acquistò i suoi due primi dipinti di Antonio Fontanesi, Le monachine di Cabianca, il Pascolo nelle pianure lombarde di Vittorio Avondo, L'abside della chiesa del Carmine a Venezia di Telemaco Signorini e, forse, la Stradina al sole di Giuseppe Abbati - come la data d'avvio della collezione, dobbiamo ammettere che il criterio con cui l'artista andava creando la propria raccolta d'arte moderna era, dettato dal desiderio di documentare il rinnovamento dei linguaggi pittorici alle soglie dell'unità italiana, dal Piemonte al Regno delle due Sicilie, cui egli aveva attivamente contribuito.

Fu solo in un secondo momento che l'artista, pur continuando ad accrescere la collezione addivenne all'idea di una scrupolosa ricostruzione filologica del movimento macchiaiolo, dai primi tentativi di rinnovamento messi a punto dai frequentatori del Caffè Michelangelo fino alle espressioni, inclini al sentimento ma sorrette dal tenore eletto della forma, di Borrani, di Lega, di Michele Tedesco, che concludono l'esperienza di Piagentina, e con essa la fase unitaria delle ricerche dei macchiaioli.

Solo nel caso di Fattori e di Boldini, l'interesse di Banti si concentrò espressamente sulle ricerche individuali di quei pittori. E se i diciotto dipinti di Fattori permettevano di seguire il percorso figurativo dell'artista, tanto più lo consentiva il sostanzioso nucleo di opere di Boldini.

Ad arricchire quella 'galleria privata', ordinata con straordinaria finezza critica contribuivano anche i ritratti della moglie e della figlia di Banti eseguiti da Michele Gordigiani, espressione del tenore colto e mondano della dimora del pittore, per non dire delle stampe giapponesi, dei dipinti romantici francesi, delle sculture di Cecioni.

Diego Martelli tra Macchiaioli e Impressionisti: una testimonianza d’arte e di vita

Uno spazio cospicuo della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, a Firenze, tutt’oggi esibisce il cuore della collezione di opere raccolte durante la sua entusiasmante attività di critico d’arte da Diego Martelli (1839-1896). Martelli desidera lasciar conto ai posteri del suo operato di critico; una sorta di testamento spirituale, il commento visivo di una delle sue celebri conferenze con le quali ha illustrato sapientemente lo svolgersi della pittura moderna, toscana e non. La tesi di fondo è quella di un rinnovamento dell’arte europea, avviatosi in Francia con Courbet e con Corot, arricchitosi di contenuti e di poesia con la rivoluzione dei Macchiaioli e culminato negli esiti cromatico-luminosi dell’Impressionismo francese.

Si trattava di ben novantatré pezzi acquisiti con sapienza metodologica e atti in gran parte a testimoniare il valore intellettuale del movimento dei Macchiaioli a suo tempo da Martelli appoggiato e la sua qualità non effimera nella restituzione pittorica, che nelle intenzioni del critico poteva confrontarsi a pieno diritto con quella di artisti stranieri, e in particolare con gli Impressionisti. Spiccano, infatti, nella pur ricca messe di capolavori talvolta di piccole dimensioni ma preziosi come gemme (si pensi a Sernesi o ad Abbati del tempo felice di Castiglioncello, quando Diego accoglieva con liberalità gli amici pittori nella sua tenuta maremmana), tele smaglianti del francesizzato Zandomeneghi, quali il vivido ritratto dello stesso Martelli che ci rivolge il suo sguardo interlocutore. Né mancano incursioni in territorio propriamente francese, come la baluginante Rive de la Seine di Alphonse Maureau, quasi una dimostrazione patente di come la ‘macchia’ potesse essere intesa in un contesto – quello dell’arte – senza confini, o i due paesaggi di Pissarro, vibranti della luce di quella modernità che Martelli seppe intuire con la consueta sagacia e con l’animo generoso di sempre rendere disponibile alla posterità.

La collezione di Rinaldo Carnielo

L’origine veneta non impedì a Rinaldo Carnielo di essere tra i più importanti collezionisti di pittura macchiaiola, nonché uno dei primi, insieme a Cristiano Banti e Diego Martelli. Scultore dal vibrante naturalismo, la sua passione collezionistica nasceva dalla profonda comprensione delle ragioni formali della ricerca macchiaiola, ma anche dai legami d’amicizia e umana simpatia stretti con gli artisti della cerchia fiorentina, in particolare con Giovanni Fattori. Allo scultore veneto Fattori aveva dedicato la tela Cavalleggeri in vedetta.

La stretta familiarità con l’ambiente artistico fiorentino e una certa agiatezza dovuta al matrimonio con la marchesa Virginia Incontri, gli permisero di far entrare nella propria raccolta opere di prima grandezza, in termini di costruzione e qualità luminose, come Casa sul Botro di Abbati, il ritratto di quest’ultimo eseguito da Boldini, La visita in villa di Lega, il quale esegue di Carnielo un ritratto di straordinaria intensità. Inoltre erano presenti nella collezione anche Borrani e Serafino di Tivoli.

Allestita nella Galleria Carnielo, edificio liberty che lo scultore si era fatto costruire nel 1889 in piazza Savonarola, la raccolta esercitò probabilmente un certo influsso sugli orientamenti della nascente collezione di Ugo Ojetti. Alla morte di Carnielo, nel 1910, la collezione contava 337 opere tra pittura e scultura, disperse in una serie di vendite, tra cui quella presso la Galleria Geri del 1929, e molte confluite nelle raccolte di altri importanti collezionisti, in particolare Enrico Checcucci e il fiorentino Mario Vannini Parenti.

Un imprenditore innamorato della bellezza: la collezione di Edoardo Bruno

Di origini torinesi, Edoardo Bruno (1864-1938) è imprenditore attivo a Firenze nel settore farmaceutico. La sua sede operativa è nel magnifico Palazzo Galli Tassi, in via dei Pandolfini, cuore della Firenze antica, ma Bruno vive con le tre figlie alle porte della città, la Villa di Montegirone. Il tesoro, la quadreria composta da oltre centoquaranta dipinti, è custodito al primo piano della villa.

Edoardo è cresciuto nella Firenze dei Macchiaioli, dunque è difficile, stante le scarse tracce documentarie fin qui reperite, stabilire quando abbia iniziato a collezionarne le opere; è certo tuttavia che negli anni Venti del Novecento, la collezione Bruno è meta di pellegrinaggio da parte degli studiosi di pittura macchiaiola  come Emilio Cecchi e Enrico Somarè. L’importanza della raccolta ci viene testimoniata dalla presenza in essa di capolavori come Cucitrici di camicie rosse di Odoardo Borrani, il cui consesso di donne che cuciono le camicie dei garibaldini vive di una tensione formale e etica altissima.

Il punto di forza della collezione Bruno è tuttavia la sequenza mozzafiato delle grandi tele maremmane di Fattori, da La marcatura dei cavalli in Maremma, a Incontro fatale a Butteri e mandrie in Maremma, accomunate da una straordinaria forza cinetica, espressione di un gusto collezionistico sensibile alle indicazioni della critica contemporanea sempre più favorevole alla “giovanile esuberanza” del vecchio maestro; una qualità che compare anche nel magnifico Appello dopo la carica, grande affresco in cui sono espresse le qualità più caratteristiche dell’arte di Fattori. Delle numerose opere di Cannicci presenti nella raccolta Bruno, Gramignaie al fiume è certamente il più importante, meraviglioso nella sua tavolozza argentata che si accende nei rossi e nei blu delle vesti delle spigolatrici toscane, mentre riflessi giallo-dorati muovono le quiete acque del fiume Cecina. Sono esposti per la prima volta La pittrice di Borrani e la luminosissima, splendida Oliveta a Settignano di Telemaco Signorini, artista di cui Bruno possiede almeno sette opere, a partire dal prezioso Cimitero di Solferino del 1859 molto rappresentativo delle prime ricerche formali dell’artista intorno alla “macchia”.

Casa Sforni: le stanze delle meraviglie di un mecenate fiorentino

Casa Sforni, nei pressi di Piazza Savonarola a Firenze, è uno degli indirizzi più esclusivi del collezionismo fiorentino a cavallo tra Ottocento e Novecento. Sin dal 1885 vi abita una facoltosa famiglia originaria di Milano. Ettore Sforni - figlio di banchieri e socio di maggioranza delle industrie di Giovan Battista Pirelli, unitamente alla moglie Rachele, hanno trasformato con gusto il villino originario in una sontuosa dimora alto borghese. E’ un ambiente destinato a favorire le inclinazioni artistiche del secondogenito, Gustavo Sforni (Firenze 1888 – Bologna 1939), pittore, collezionista, intellettuale, imprenditore, mecenate. Nel 1913 Sforni, mette in essere la pubblicazione di un lussuoso volume monografico dedicato a Giovanni Fattori, per i tipi di una casa editrice da lui stesso creata, la S.E. L.F. (Società Editrice Libraria Fiorentina), il grande macchiaiolo è da poco scomparso, povero e misconosciuto come era sempre vissuto, ma circondato dall’affetto, di artisti di diverse generazioni, alcuni dei quali suoi allievi, altri a lui legati da una simpatia umana che travalica gli anni e le differenze di stile. Fra questi è senz’altro Oscar Ghiglia al quale Sforni affida il compito d’introdurre la sequenza d’immagini selezionata da entrambi, splendide fototipie Alinari virate al seppia che forniscono di per sé il senso profondo dell’impresa.

A svelare il pudico riserbo calato su Casa Sforni dopo l’occupazione tedesca di Firenze del 1943, che disperse in larga parte gli oggetti d’arte, sono oggi alcune fotografie pervenuteci, realizzate verso il 1920, che mostrano gli interni della villa e l’assetto originario della quadreria, con i mobili, le sculture di Rodin e di Medardo Rosso, i kakemoni e le sculture orientali, come quella del budda in legno dorato e laccato nero e rosso. Si riconoscono, appesi con la cura del vero amatore, i dipinti di Fattori accanto a quelli di Oscar Ghiglia, di Llewelyn Lloyd, ma sappiamo, dagli antichi inventari di famiglia che Sforni possiede anche opere di Abbati, di Silvestro Lega, di Mario Puccini, di Van Gogh, di Degas, di Cézanne, di Utrillo.

Mario Galli “il più acuto e raffinato intenditore dei Macchiaioli”

 

Formatosi come scultore nella bottega di Giovanni Focardi sul finire dell'Ottocento, il fiorentino Mario Galli (1877-1946) aveva poi aperto uno studio in via degli Artisti, e lì, lavorando e conversando d'arte con i colleghi, con gli amici, con gli estimatori della pittura fiorentina dell'epoca, aveva cominciato a apprezzare l'opera dei macchiaioli e dei loro seguaci. E fu Giovanni Fattori l'artista che per primo suscitò il suo interesse, inducendolo a acquistarne i dipinti.

Il critico Somaré che visitò la collezione di Galli nel 1924, scrive che “La presenza dei Macchiaioli si faceva vedere su tutte le pareti dell’appartamento (…) nei corridoi, dai muri rallegrati di acqueforti fattoriane, di disegni, di tocchi di penna; mentre su questo canterano e su quel cassettone posavano le comicissime caricature e le leggiadre statuette in terracotta di Adriano Cecioni. Nelle stanze di fondo, si svolgeva, coi più chiari nomi e coi migliori quadri, il paesaggio della scuola toscana: c’erano i Bovini neri al carro, i Tetti al sole e le marine di Raffaello Sernesi; c’erano gli orti e i pascoli dell’attento Borrani, i lidi sconsolati di Giuseppe Abbati, le impressioni vivide e nervose di Silvestro Lega e le grandi figure magistrali di Vito D’Ancona.

Tutta la raccolta del Fattori stava poi disposta in bell’ordine alle pareti di una sala cerula…”.

Sulla capacità persuasiva di Galli mercante sulla “sua passione vestita costantemente di una persuasione intima, suggestiva; condita sempre di un suo buon umore piacevole e ridanciano” si sofferma invece Focardi.

Alle soglie della prima guerra mondiale, la raccolta di Galli, arricchita di opere provenienti da collezioni prestigiose come quelle Banti, Pisani, Checcucci, costituiva “un insieme di accordi di concetti di forme di colori” senz'altro esemplificativo delle doti pittoriche e emozionali della pittura macchiaiola di quella pittura che egli non si sarebbe mai stancato di promuovere, fino a concepire, nell'intento di vivacizzare il mercato e di quotare in maniera adeguata al loro valore estetico e storico i dipinti, un programma di vendite all'asta che incluse anche l'alienazione, cadenzata nell'arco di una quindicina d'anni, delle proprie raccolte.

Enrico Checcucci

Mercante-collezionista affiancato da Mario Galli nella ricerca dei capolavori, in un rapporto che mescolò costantemente vicinanza e rivalità, Checcucci (1865-1933) attinge ad alcune delle prime e più importanti collezioni di pittura macchiaiola nella fase della loro dispersione, come quelle di Banti e Carnielo, ma anche di Fantacchiotti e Rivalta. Nel 1910 un centinaio di opere della sua raccolta viene presentato all’Esposizione retrospettiva dei Macchiaioli organizzata dalla Società delle Belle Arti di Firenze e nel 1913 un piccolo ma prezioso catalogo, in occasione della prima vendita, rivela la consistenza raggiunta. Gli ulteriori arricchimenti che seguirono negli anni fino alle vendite del 1928 e del 1929 lo vedono costantemente “in gara” con altri formidabili raccoglitori, come il Duca di San Donato.

Alla collezione Checcucci sono effettivamente appartenute opere cardine della scuola macchiaiola e più in generale, per il loro significato programmatico, dell’arte italiana. Come Signora in giardino di D’Ancona, Una via di Settignano di Signorini, quest’ultimo in mostra e passato in collezione Giussani e Marina a Castiglioncello di Sernesi, anch’esso qui esposto.

Non solo Macchiaioli: la collezione di Camillo Giussani

Camillo Giussani (1879-1960) è figura poliedrica di giurista, umanista e sportivo amante della montagna.

L’orientamento della propria quadreria, cui mette mano sin dal 1915, prima con acquisti sporadici poi – tra il 1925 e il 1936 – intensificandoli con un disegno assai circostanziato, è in parte determinato dall’eredità dello zio materno, il senatore Carlo Esterle che ha acquistato alla vendita della Galleria Pisani, il capolavoro di  Giovanni Fattori Le Macchiaiole e alla sua scomparsa nel 1918 lo ha lasciato al nipote. I primi passi, lo s’intuisce, vengono fatti dal Giussani nel cono d’ombra di un collezionista più esperto e suo caro amico, il maestro Arturo Toscanini. I due amici sono insieme nel maggio 1928 alla Galleria Pesaro per prendere parte all’asta della Collezione Checcucci.

Entrano così nella raccolta Giussani due capolavori, Piazzetta a Settignano di Telemaco Signorini e La Marina a Castiglioncello di Raffaello Sernesi, uno dei vertici lirici della cosiddetta Scuola di Castiglioncello; essi vanno a congiungersi con lo splendido L’analfabeta di Borrani. Con il critico Enrico Somaré Giussani condivide la predilezione per la pittura di Signorini, ma è l’incontro con Angelo Sommaruga che lo fa appassionare alla pittura di De Nittis e di Federico Zandomeneghi. Di De Nittis, Giussani possiede in collezione nove opere tra oli e acquarelli, rivelando nella scelta una predilezione per la raffigurazione di paesaggi innevati e “alla giapponese” come Campo di neve. Ammaliato dalle qualità di grande colorista proprie di Zandomeneghi ne acquista sette dipinti, tra i quali Place du Tertre, Il dottore e Il Giubbetto rosso. Forse lo stesso Sommaruga lo conforta nella predisposizione ad includere nella collezione anche autori stranieri come Gustave Caillebotte, Raffaelli, Emile Claus (di cui acquista lo splendido La maison en briques) e il paesaggista russo Klodt von Jürgensburg di cui acquisisce un raro paesaggio dipinto a Fontainebleau nel 1868. La presenza di due splendidi olii di Alberto Pasini è frutto di un dono da parte del senatore Albertini, direttore del Corriere della Sera e suo fraterno amico. L’acquisizione alla vendita all’asta della Galleria Ingegnoli di due bellissime tavole universalmente attribuite al giovane Giovanni Segantini, si è invece rivelata un passo falso, alla luce dell’odierno restauro che ha rivelato la firma del vero autore, Mosè Bianchi da Moirago.

Per ricordare Mario Borgiotti e il suo “genio” per i Macchiaioli

La figura di Mario Borgiotti (Livorno 1906 – Firenze 1977) pittore, conoscitore, collezionista e massimo divulgatore dell’arte dei Macchiaioli deve molto, nella sua formazione, a quel clima storico- artistico, e in particolare alla figura di Mario Galli che egli conobbe a Livorno negli anni Venti. Galli era per lui “il più acuto e raffinato intenditore dei Macchiaioli”. Nel 1946, all’età di quarant’anni, Borgiotti ottiene alcune sale della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti per allestire un’esposizione dedicata ai Macchiaioli.

Nel 1955 Borgiotti prende studio a Milano, in via Manzoni, con l’intento di contribuire alla valorizzazione dei Macchiaioli stimolando la formazione di nuovi collezionisti: il più assiduo è l’industriale Emilio Gagliardini, la cui collezione, è oggi esposta alla Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti. Nel 1958 dà alle stampe “Poesia dei Macchiaioli” un‘opera prestigiosa anche per l’alta qualità delle sue illustrazioni in carta patinata, le famose “vignettes colleés”, che messe in voga dall’editore Skira, attraverso la collana “Grandi Libri” offrono una qualità di definizione veramente innovativa. Avranno caratteristiche analoghe i due volumi del “Genio dei Macchiaioli” editi nel 1964-1968.

Impossibile ricordare in breve i molti dipinti che sono transitati nella collezione di Borgiotti, si sono scelte dunque due opere di Telemaco Signorini, Fra gli ulivi a Settignano e Il Ponte Vecchio a Firenze, opera magistrale nella quale il fiorentino gareggia con le vedute urbane, le famose tranche de vie che a Parigi hanno decretato la fama di Giovanni Boldini e Giuseppe De Nittis. E’ per acquistare questo dipinto che Borgiotti, sessantenne, vince la paura di volare e si reca a Londra.

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